“Donne in Raccolta”
Raccolta Manzù Ardea
D’antichi legni, di Lilith e altro. Conversazione con Maria Rita De Giorgio
Intervista di Marcella Cossu
giugno 2011
La conversazione si svolge nell’automobile di Maria Rita, in una mattina piena di sole ai primi di giugno, nel tratto della via Pontina compreso tra Ardea e Latina, là dove si apre la grande pianura del basso Lazio e inizia il vero, autoctono “Ponto” ; meno di due settimane fa si è svolta alla Raccolta Manzù la prima mostra “take away” o se si preferisce “mordi e fuggi” della prima artista finora mai riuscita ad esporre nell’inviolabile sacello ardeatino…
Le installazioni di Maria Rita, al primo impatto strani e indefinibili assemblaggi di più elementi, necessitano di un attimo di profonda concentrazione perché ci si possa connettere con il flusso di sensazioni e di emozioni trasmesso dall’artista alle opere, e che le opere ritrasmettono a noi. Colpisce, in queste installazioni, o “totem” come vengono più spesso definite, la bernardina “formosa difformitas”, il caos calmo, l’armonia degli opposti, generata dallo studiato affollarsi, all’interno di trasparenti telai geometrici, di aste verticali inframmezzate dalla scansione di elementi di quadro svedese, cui ancora si sovrappongono e si intersecano forme circolari sia vuote che piene, così come mezzelune traforate, a simulare meccanismi che ricordano la metallica intimità di un orologio sventrato, o, a seconda di come ci si pone nei loro confronti, l’impianto curvilineo di arcaici strumenti a corda, un’arpa o una cetra pronta a vibrare all’alito del vento. Un universo complesso e articolato; un microcosmo che a guardarlo svela infine, procedendo dall’insieme al particolare, l’anima femminile intrappolata nell’energica regia compositiva dell’installazione: il frammento geometrico di specchio concentrico al quadrato del legno, l’intarsio delle pietre colorate nella sabbia calda racchiusa all’interno dei “gable”circolari a terra, il decorativismo – quanto mai indispensabile- di trafori che ingentiliscono ed amalgamano il ligneo affastellarsi di semicerchi e ruote, colmando vuoti e correggendo prospettive; l’enigmatica presenza del manichino rampante, esageratamente piccolo in proporzione alla struttura che cerca di “gradire”, tutto richiama il gioco di radicale scomposizione –ricomposizione dell’universo inventato, e giocato, ai primi del novecento dalle Avanguardie storiche: la parcellizzazione spazio-temporale, caleidoscopica, del Cubismo analitico; la ricostruzione delirante e illogica della colonna-merz di Schwitters, il fluttuare onirico-percettivo della volontà tra Dada e Surrealismo; ma, al disopra di tutto, la simbologia geometrica-ed ermetica- della Metafisica, con quel manichino che da assoluto, inquietante protagonista delle tele di de Chirico e Carrà, qui si trasforma in piccolo patetico essere teso alla conquista del totem, alla mercè di corde penzolanti nel vuoto. In sintesi, un “luogo della mente”, o se si preferisce una “Città Invisibile” come in Italo Calvino.
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